Ong, cosa si nasconde dietro la pettorina dei “dialogatori”
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Ong, cosa si nasconde dietro la pettorina dei “dialogatori”
L'Amico L. trasmette questo articolo che fa luce su aspetti poco chiari delle Ong:
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Ong, cosa si nasconde dietro la pettorina dei “dialogatori”
L’operato delle Organizzazioni non governative, al centro delle cronache attuali, si regge sulla raccolta fondi… Nell’inchiesta di “LucidaMente”, un nostro collaboratore si è infiltrato nell’ingranaggio. E ha scoperto la verità sul lavoro e sul dramma sociale ed esistenziale dei procacciatori di donazioni “appaltati” a società a scopo di lucro
Avete presente quei ragazzi (e ragazze) sorridenti che fermano le persone per strada, con addosso la pettorina recante il logo di svariate associazioni benefiche? Li troviamo, appunto, all’entrata dei locali, nei luoghi più frequentati, di solito per chiedere fondi a favore di migranti, bambini in difficoltà, ricerca medica contro gravi patologie… Tutti, vedendoli, abbiamo pensato fossero giovani aderenti alle medesime organizzazioni e che agissero gratis, spinti da nobili ideali. E soprattutto che fossero liberi, tanto meno sfruttati da chicchessia. Beh, non è proprio così. Il nostro collaboratore ha vissuto in prima persona questa esperienza, diventando anche lui, per un paio di giorni, “dialogatore”. Il resoconto che riporta nel suo articolo è una disarmante denuncia su una realtà della quale è bene venire a conoscenza.
Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito e non la luna. Quando il telegiornale parla di emergenza immigrazione, lo stesso stolto guarda al comportamento delle Organizzazioni non governative (Ong) e non alle cause geopolitiche che generano il problema. In tutto ciò, nessuno ha ancora guardato ai dialogatori: persino nell’equazione malsana sopracitata, non è possibile trovare loro un ruolo logicamente utile. Proverò a parlarne io, che sono stato uno di loro per circa due giorni. Tanto basterà a voi per non mettere in dubbio l’affidabilità dell’inchiesta.
Per incrementare il capitale a loro disposizione e, soprattutto, per poter inquadrare l’opera di proselitismo nelle statistiche, le maggiori Ong si affidano a soggetti terzi per la raccolta fondi. Eppure, nei loro siti vi sono link (vedi quelli di Medici senza frontiere o Save the children) ai quali si può accedere per intraprendere, in maniera immediata, il lavoro di dialogatore. Si crea, così, l’illusione che si diventi diretti e benefici dipendenti delle Ong, piuttosto che giovani in cerca di opportunità per far carriera, sfruttati da società terze a scopo di lucro. Una tra le più importanti di queste, la Appco Italia, è collegata alla multinazionale londinese dall’eloquente denominazione Cobra Group, che all’estero è stata al centro di numerose polemiche: per i salari bassi ai limiti dello sfruttamento, per le tattiche di persuasione che sfiorano raggiro, per gli incentivi ai giovani ai limiti dell’inganno (leggi Il no profit che si approfit: lo scandalo della raccolta fondi solidale).
Anche in Italia qualche testata ha denunciato il fenomeno a danno di giovani in cerca di qualche introito (vedi piccola bibliografia a fine articolo). Si tratta, in generale, di agenzie minori specializzate nel direct marketing e nella vendita face to face o door to door che dir si voglia. Per farlo in maniera efficace si impegnano a trasmettere ai propri dipendenti una serie di skills affabulatorie da mettere in pratica in street, nei daytrip, nei roadtrip e in un’altra serie di situazioni esprimibili necessariamente con altri inglesismi. Dopo pochi giorni, non sembrerà affatto strano salutarsi dicendo: «Ciao, ci si vede tomorrow».
Il denaro della “beneficenza” compie un viaggio pseudopicaresco attraversando i continenti e affrontando o schivando tutti gli ostacoli in agguato tra le pieghe dell’universo burocratico. Esso tocca trasversalmente tutti i piani della scala sociale: si apre sui bambini sofferenti di un Darfur in piena crisi idrica – o, quanto meno, sui loro primi piani – e si chiude sui più limpidi esponenti della nostra classe disagiata. Giovani studenti medioborghesi che vogliono tutelare quel che resta delle loro velleità artistiche, della loro pretesa di indipendenza. E quindi non vogliono fare i camerieri. L’ingresso in agenzia è alla portata di molti, se non di tutti: più volte viene chiesto al candidato se si vede davvero nei panni del venditore seriale, più volte gli viene ricordato che – pur cominciando per gioco – in pochi anni avrà la più florida delle carriere.
Durante il colloquio, l’elemento “anziano” che si occupa del reclutamento è estremamente affabile, il migliore dei migliori amici. Ride alle tue battute, placa le tue ansie, ti fa notare un bel culo femminile che passa e ti racconta la sua ultima scopata ammiccando e sgomitando. Al tavolo di un bar ti viene accennata la terribile “legge delle medie”, secondo la quale su 180 persone fermate, una dovrebbe decidersi a donare. Ma il gusto dolce della granita pesca e mango che ti hanno offerto alleggerisce ogni paturnia legata alle prestazioni.
Pensi più volentieri al tuo futuro roseo in agenzia, al fatto che nel giro di tre anni – dopo aver scalato qualche posizione – potrai cominciare a campare senza lavorare. Però «guai a parlare di gerarchie», disse il team leader… Darsi del “Lei” pare sia severamente vietato, meglio una pacca sulla spalla e un sorriso o magari un applauso di gruppo ogni tanto. Tu, che arrivi con bermuda e maglia con il nome di una città, vai tranquillamente a farti uno spritz col tuo capo in abito gessato e cravatta. Anche a ’sto giro paga lui, è ufficiale: ti sta simpatico. Cominciare sul campo è un po’ come cadere dall’amaca in un pomeriggio agostano e sentire il mezzo chilo di lasagna del pranzo che risale prepotentemente fino al cervello. L’impatto con la realtà è duro per tutti. Uno spaccato della razza umana ti passa accanto e ti attraversa in una confusione di schegge grigie.
L’unico modo per resistere è riuscire a disumanizzare la fauna urbana. Riuscire a trasformare le ore di lavoro in una lunga e sfibrante visita su Chatroulette con l’obiettivo primario di fermare le vecchie ricche. Crescendo, la deontologia professionale ti induce a rivedere i tuoi parametri sull’erotismo. Se si riesce a impostare una forma di dialogo con qualcuno, arriva il momento di mettere a frutto i consigli del depliant fornito dall’agenzia.
Vale a dire: mantenere il contatto visivo, non usare parole difficili o sintassi complicate, modulare il tono di voce, stare ora di fronte, ora accanto all’interlocutore, fare una battuta al momento giusto (che non sia troppo spiritosa) e chiedere con indifferenza un «affiancamento» del valore di mezzo caffè al giorno (e sono centinaia di euro all’anno). A meno che il donatore quel giorno non si sia svegliato supereroe e non voglia donare cinquanta euro al mese. L’ingessatura immobilizzante generata dall’unione tra le tecniche basiche di persuasione e l’ombra del fallimento fa somigliare la casacchina dell’associazione benefica alla Marsina stretta che dà il titolo all’episodio interpretato e diretto da Aldo Fabrizi nel film Questa è la vita (1954). Nella pellicola, tratta da una novella di Luigi Pirandello, il protagonista è un professore che si impegna a salvare il matrimonio di un’ex allieva, nonostante l’opposizione dei parenti dello sposo.
La frustrazione di indossare una marsina troppo stretta gli conferisce il potere di piegare i presenti alla sua volontà e da una manica strappata nasce il moto di ribellione verso se stesso e le convenzioni che lo frenano. Con delle argomentazioni che sfiorano il capolavoro retorico, l’insegnante riesce nell’impresa insperata di portare i due giovani all’altare. Il lieto fine coincide con il raggiungimento dell’obiettivo posto all’inizio della storia. Coincide con il senso di liberazione totale che lava via tutte le ansie come una doccia fredda. Regalare una gioia simile alle tante marsine strette che vi intralciano la strada, magari proprio mentre state andando a «prendere il treno», potrebbe essere uno dei motivi più validi per decidersi a fare beneficenza.
Sull’argomento dialogatori vi segnaliamo altri articoli-inchiesta, reperibili sul web:
In Corriere.it: Viaggio nel mondo dei «dialogatori», vero serbatoio economico delle Ong;
In Milano.Repubblica.it: Le mie tre giornate da precario a vendere beneficenza in strada;
In Redattore sociale.it: Raccolta fondi “face to face”, il lato nascosto di un metodo che funziona;
In Liguria Notizie.it: E li chiamano “dialogatori”. Venditori di contratti per Ong reclutati da agenzie di marketing;
In Corretta informazione.it: ONG: la beneficenza che diventa marketing;
In Andrea Favarin: PERSUASIONE: Il lato oscuro dei dialogatori ONG.
Le immagini: La “dolce vita” dei dialogatori e Aldo Fabrizi nell’episodio Marsina stretta del film Questa è la vita (1954).
Orazio Francesco Lella
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Ong, cosa si nasconde dietro la pettorina dei “dialogatori”
L’operato delle Organizzazioni non governative, al centro delle cronache attuali, si regge sulla raccolta fondi… Nell’inchiesta di “LucidaMente”, un nostro collaboratore si è infiltrato nell’ingranaggio. E ha scoperto la verità sul lavoro e sul dramma sociale ed esistenziale dei procacciatori di donazioni “appaltati” a società a scopo di lucro
Avete presente quei ragazzi (e ragazze) sorridenti che fermano le persone per strada, con addosso la pettorina recante il logo di svariate associazioni benefiche? Li troviamo, appunto, all’entrata dei locali, nei luoghi più frequentati, di solito per chiedere fondi a favore di migranti, bambini in difficoltà, ricerca medica contro gravi patologie… Tutti, vedendoli, abbiamo pensato fossero giovani aderenti alle medesime organizzazioni e che agissero gratis, spinti da nobili ideali. E soprattutto che fossero liberi, tanto meno sfruttati da chicchessia. Beh, non è proprio così. Il nostro collaboratore ha vissuto in prima persona questa esperienza, diventando anche lui, per un paio di giorni, “dialogatore”. Il resoconto che riporta nel suo articolo è una disarmante denuncia su una realtà della quale è bene venire a conoscenza.
Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito e non la luna. Quando il telegiornale parla di emergenza immigrazione, lo stesso stolto guarda al comportamento delle Organizzazioni non governative (Ong) e non alle cause geopolitiche che generano il problema. In tutto ciò, nessuno ha ancora guardato ai dialogatori: persino nell’equazione malsana sopracitata, non è possibile trovare loro un ruolo logicamente utile. Proverò a parlarne io, che sono stato uno di loro per circa due giorni. Tanto basterà a voi per non mettere in dubbio l’affidabilità dell’inchiesta.
Per incrementare il capitale a loro disposizione e, soprattutto, per poter inquadrare l’opera di proselitismo nelle statistiche, le maggiori Ong si affidano a soggetti terzi per la raccolta fondi. Eppure, nei loro siti vi sono link (vedi quelli di Medici senza frontiere o Save the children) ai quali si può accedere per intraprendere, in maniera immediata, il lavoro di dialogatore. Si crea, così, l’illusione che si diventi diretti e benefici dipendenti delle Ong, piuttosto che giovani in cerca di opportunità per far carriera, sfruttati da società terze a scopo di lucro. Una tra le più importanti di queste, la Appco Italia, è collegata alla multinazionale londinese dall’eloquente denominazione Cobra Group, che all’estero è stata al centro di numerose polemiche: per i salari bassi ai limiti dello sfruttamento, per le tattiche di persuasione che sfiorano raggiro, per gli incentivi ai giovani ai limiti dell’inganno (leggi Il no profit che si approfit: lo scandalo della raccolta fondi solidale).
Anche in Italia qualche testata ha denunciato il fenomeno a danno di giovani in cerca di qualche introito (vedi piccola bibliografia a fine articolo). Si tratta, in generale, di agenzie minori specializzate nel direct marketing e nella vendita face to face o door to door che dir si voglia. Per farlo in maniera efficace si impegnano a trasmettere ai propri dipendenti una serie di skills affabulatorie da mettere in pratica in street, nei daytrip, nei roadtrip e in un’altra serie di situazioni esprimibili necessariamente con altri inglesismi. Dopo pochi giorni, non sembrerà affatto strano salutarsi dicendo: «Ciao, ci si vede tomorrow».
Il denaro della “beneficenza” compie un viaggio pseudopicaresco attraversando i continenti e affrontando o schivando tutti gli ostacoli in agguato tra le pieghe dell’universo burocratico. Esso tocca trasversalmente tutti i piani della scala sociale: si apre sui bambini sofferenti di un Darfur in piena crisi idrica – o, quanto meno, sui loro primi piani – e si chiude sui più limpidi esponenti della nostra classe disagiata. Giovani studenti medioborghesi che vogliono tutelare quel che resta delle loro velleità artistiche, della loro pretesa di indipendenza. E quindi non vogliono fare i camerieri. L’ingresso in agenzia è alla portata di molti, se non di tutti: più volte viene chiesto al candidato se si vede davvero nei panni del venditore seriale, più volte gli viene ricordato che – pur cominciando per gioco – in pochi anni avrà la più florida delle carriere.
Durante il colloquio, l’elemento “anziano” che si occupa del reclutamento è estremamente affabile, il migliore dei migliori amici. Ride alle tue battute, placa le tue ansie, ti fa notare un bel culo femminile che passa e ti racconta la sua ultima scopata ammiccando e sgomitando. Al tavolo di un bar ti viene accennata la terribile “legge delle medie”, secondo la quale su 180 persone fermate, una dovrebbe decidersi a donare. Ma il gusto dolce della granita pesca e mango che ti hanno offerto alleggerisce ogni paturnia legata alle prestazioni.
Pensi più volentieri al tuo futuro roseo in agenzia, al fatto che nel giro di tre anni – dopo aver scalato qualche posizione – potrai cominciare a campare senza lavorare. Però «guai a parlare di gerarchie», disse il team leader… Darsi del “Lei” pare sia severamente vietato, meglio una pacca sulla spalla e un sorriso o magari un applauso di gruppo ogni tanto. Tu, che arrivi con bermuda e maglia con il nome di una città, vai tranquillamente a farti uno spritz col tuo capo in abito gessato e cravatta. Anche a ’sto giro paga lui, è ufficiale: ti sta simpatico. Cominciare sul campo è un po’ come cadere dall’amaca in un pomeriggio agostano e sentire il mezzo chilo di lasagna del pranzo che risale prepotentemente fino al cervello. L’impatto con la realtà è duro per tutti. Uno spaccato della razza umana ti passa accanto e ti attraversa in una confusione di schegge grigie.
L’unico modo per resistere è riuscire a disumanizzare la fauna urbana. Riuscire a trasformare le ore di lavoro in una lunga e sfibrante visita su Chatroulette con l’obiettivo primario di fermare le vecchie ricche. Crescendo, la deontologia professionale ti induce a rivedere i tuoi parametri sull’erotismo. Se si riesce a impostare una forma di dialogo con qualcuno, arriva il momento di mettere a frutto i consigli del depliant fornito dall’agenzia.
Vale a dire: mantenere il contatto visivo, non usare parole difficili o sintassi complicate, modulare il tono di voce, stare ora di fronte, ora accanto all’interlocutore, fare una battuta al momento giusto (che non sia troppo spiritosa) e chiedere con indifferenza un «affiancamento» del valore di mezzo caffè al giorno (e sono centinaia di euro all’anno). A meno che il donatore quel giorno non si sia svegliato supereroe e non voglia donare cinquanta euro al mese. L’ingessatura immobilizzante generata dall’unione tra le tecniche basiche di persuasione e l’ombra del fallimento fa somigliare la casacchina dell’associazione benefica alla Marsina stretta che dà il titolo all’episodio interpretato e diretto da Aldo Fabrizi nel film Questa è la vita (1954). Nella pellicola, tratta da una novella di Luigi Pirandello, il protagonista è un professore che si impegna a salvare il matrimonio di un’ex allieva, nonostante l’opposizione dei parenti dello sposo.
La frustrazione di indossare una marsina troppo stretta gli conferisce il potere di piegare i presenti alla sua volontà e da una manica strappata nasce il moto di ribellione verso se stesso e le convenzioni che lo frenano. Con delle argomentazioni che sfiorano il capolavoro retorico, l’insegnante riesce nell’impresa insperata di portare i due giovani all’altare. Il lieto fine coincide con il raggiungimento dell’obiettivo posto all’inizio della storia. Coincide con il senso di liberazione totale che lava via tutte le ansie come una doccia fredda. Regalare una gioia simile alle tante marsine strette che vi intralciano la strada, magari proprio mentre state andando a «prendere il treno», potrebbe essere uno dei motivi più validi per decidersi a fare beneficenza.
Sull’argomento dialogatori vi segnaliamo altri articoli-inchiesta, reperibili sul web:
In Corriere.it: Viaggio nel mondo dei «dialogatori», vero serbatoio economico delle Ong;
In Milano.Repubblica.it: Le mie tre giornate da precario a vendere beneficenza in strada;
In Redattore sociale.it: Raccolta fondi “face to face”, il lato nascosto di un metodo che funziona;
In Liguria Notizie.it: E li chiamano “dialogatori”. Venditori di contratti per Ong reclutati da agenzie di marketing;
In Corretta informazione.it: ONG: la beneficenza che diventa marketing;
In Andrea Favarin: PERSUASIONE: Il lato oscuro dei dialogatori ONG.
Le immagini: La “dolce vita” dei dialogatori e Aldo Fabrizi nell’episodio Marsina stretta del film Questa è la vita (1954).
Orazio Francesco Lella
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